mercoledì 3 novembre 2010

Carie e memoria !

Udite, udite!
Uno studio di James Noble del Columbia College of Physicians and Surgeons a New York City e Pubblicato sul Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry, condotto su 2300 persone di 60anni e più. Gli esperti hanno controllato lo stato di salute della loro bocca e li hanno sottoposti a test cognitivi e di memoria. E’ emerso che gli adulti con una bocca più trascurata , con gengivite e parodontite, hanno più problemi cognitivi e di memoria. La conclusione degli scienziati è ben evidenziata dal titolo dell’articolo apparso su l’Eco di Bergamo(15.11.2009) alla pagina della salute redatta in collaborazione con l’Asl: “Lavarsi i denti” aiuta a ricordare.
Senza entrare nello specifico della ricerca, su cui varrebbe la pena di dilungarsi,correndo però il rischio di tediare i non addetti, appare evidente la strumentalità delle conclusione oltre alla confusione spesso presente nelle cosiddette ricerche scientifiche, tra causa ed effetto. La conclusione, fin troppo ovvia e per questo scarsamente strumentalizzabile, avrebbe dovuto essere: Coloro che hanno problemi cognitivi e di memoria dimenticano spesso di lavarsi i denti andando incontro a patologie dentali.
Ma chi avrebbe investito capitali per dimostrare una cosa così ovvia?

mercoledì 22 settembre 2010

Prefazione del libro "doctor no limits" di Roberto Cadonati

Uno scienziato che non guardi con vivo interesse
alle discipline scientifiche diverse dalla propria
si esclude dalla partecipazione a quella autoliberazione
attraverso la conoscenza
che è la missione culturale della scienza.
(K. Popper)

Il titolo vuole solo essere una provocazione e sottolineare l’intolleranza dei medici a qualunque limitazione, politica o tecnica, venga loro suggerita od imposta.
Il tono è volutamente provocatorio: gli stagni non si increspano per il battito d’ali delle libellule ma per i sassi lanciati sull’acqua. Come capirete, se avrete la curiosità e la resistenza per arrivare alla fine, non ho niente che assomigli anche lontanamente a qualunque manifestazione di ortodossia. Per dirla con Popper: “Per quanto rispetti la tradizione e sia consapevole della sua importanza sono nello stesso tempo un seguace quasi ortodosso della non ortodossia: ritengo che l’ortodossia sia la morte della conoscenza, e ciò perché il progredire del sapere dipende interamente dall’esistenza del disaccordo”.
È un libro nato dalle reazioni e riflessioni alla profusione di notizie dai mass media, gli strumenti di informazione che più spesso disinformano trattando sovente i lettori come cretini, e dalle animate discussioni coi molti amici medici, con cui discuto con la stessa sincera passione che spero possiate avvertire nella lettura.
Non sono particolarmente interessato a dare più giorni alla mia vita, ma a dar più vita ai miei giorni, né sono interessato a costituirmi un sicuro pensionamento facendo come la maggioranza dei giornalisti tesi a conquistarsi indulgenze e simpatie tra i medici e le case farmaceutiche. Gli uni e le altre si stanno organizzando in maniera da rappresentare un pericolo, invece che una risorsa per l’uomo, per la sua salute e soprattutto per il suo benessere. Così giornali, stampa e televisioni sotto la loro pressante spinta sono diventati strumenti di terrorismo psicologico e disinformazione interessata all’acritica promozione della medicina come prodotto di consumo di massa.
I lupi – si sa – si vestono da agnelli per riempire le loro pance e muovere le loro fameliche bocche; l’asettico camice bianco che i medici indossano finanche nelle interviste serve loro per dare candore anche alle pratiche più bieche e alle più interessate proposte terapeutiche. Ripetono come un mantra che il loro agire è “secondo scienza e coscienza”, ma se la coscienza è quella che si vede in alcuni fatti quotidiani c’è da inorridire! La mia indignazione è diretta a quei medici, molti ma ovviamente non tutti, che con il pretesto della difesa della nostra salute ci avvelenano mente e corpo senza pudore e per giunta investendoci delle loro colpe. Come quando accertata la presenza di una seria malattia il medico si rivolge al paziente con la più stupida e becera delle domande: ”Ma dove è stato fino ad ora, perché non è venuto prima?”
L’obiettivo manifesto dell’industria della medicina è la salute dell’uomo, l’obiettivo implicito dei medici no limits è invece il gioco a tutto campo e senza regole o arbitri che ne verifichino la corretta applicazione.
Il medico dovrebbe costituirsi garante della salute dei loro pazienti anche svolgendo un ruolo critico di valutazione della bontà, dell’attendibilità e coerenza delle ricerche e dei loro risultati e della loro informazione e pubblicazione mentre oggi il medico è acriticamente “asservito” all’industria farmaceutica, che non solo finanzia e gestisce in proprio la ricerca ma controlla a suo piacimento anche l’informazione scientifica, che se non è volontariamente manipolata è quantomeno di parte, come lo è il materiale divulgativo fornito al medico. Pertanto i medici diventano complici dell’industria sanitaria quando lancia appelli a scongiurare o condizionare scelte che sono politiche o etiche.
Ovunque ci sia potere, politico o economico, il medico ritiene di dover aver voce in capitolo. La lobby medica è nutrita e potente, molto rappresentata nel parlamento italiano come nelle varie emanazioni politiche e ha soprattutto un enorme potere suggestivo sulle masse. Ha tutti i media a disposizione: basta che fiati di qualche terapia, probabile o improbabile che sia, che si riempiono intere pagine di giornale e si invadono i teleschermi di piccoli e grandi network televisivi.
Siamo al paradosso per cui la corporazione medica è diventata una grave minaccia per la salute.
In Italia siamo tutti dottori, dal posteggiatore all’operatore ecologico. Il nostro è un popolo di navigatori, poeti, inventori e scienziati. Ognuno vuole esser considerato uno scienziato o quantomeno uno scienziato mancato e incompreso.
Il vero scienziato si differenzia da costoro (o almeno dovrebbe) per la profondità, l’entità, la precisione e la forza della descrizione che accetta come corretta delle sue osservazioni, e la sua volontà di rivederle, rielaborale e interpretarle alla luce di nuove prove e conoscenze.
La maggior parte dei nuovi scienziati che ruotano attorno al mondo della sanità sembrano lontanissimi da questa visione.
Lontani anche dalla visione che promuoveva il famoso ematologo inglese Sir David Weatherall, che sottolineava da un lato che lo scienziato dovrebbe costantemente vivere nel dilemma di due culture, quella scientifica e quella umanistica che è poi quella pratica condivisa col paziente, e che la ricerca scientifica deve essere “arte silenziosa a dispetto della gloria”.
Oggi lo scienziato della salute urla “in time” costantemente dentro i megafoni amplificati delle radio e delle televisioni e delle pagine rilucenti delle riviste patinate. E allora io sollecito voi, attraverso questo modesto amplificatore, forse in modo inelegante ma spero efficace, per oppormi argomentando, a coloro che delegano acriticamente alle aziende l’informazione sui farmaci o presidi che somministrano o consigliano ai loro pazienti, che non sono realisticamente scettici di fronte alle centinaia e migliaia di ricerche e articoli, nuove scoperte presto contraddette, che non valutano criticamente ciò che viene loro propinato, scegliendo di mandare il proprio cervello all’ammasso dietro i potentati della salute e del “politicamente corretto”. Pronti ad adagiarsi alle linee guida ministeriali, o di qualche pesce pilota messo alla guida del branco da qualche industria farmaceutica. Non le seguono per convinzione che siano le indicazioni migliori per i loro pazienti, ma per la certezza che seguendo la traccia e il branco ci si pone al riparo da azioni legali o ritorsioni di pazienti e colleghi. La stragrande maggioranze delle indagini diagnostiche non vengono prescritte perché servono al paziente, ma per affrancare il medico da noie legali. Molte delle qualità preziose relative alla pratica medica vengono perse nel tentativo di comprendere i meccanismi della malattia invece che comprendere i problemi e i bisogni delle persone che al medico si rivolgono. La persona è ormai completamente scomparsa nella medicina disumanizzata, votata solo alla tecnologia e alla biologia molecolare.
I medici spesso conoscono più le manovre e le speculazioni meschine per avere ruoli e poteri in ospedale che le operazioni necessarie per definire una ricerca scientifica e differenziarla da quella statistica o fantastica.
Ma non si può acquisire capacità critica leggendo la stampa di settore sostenuta dalla pubblicità farmaceutica, delle ricerche confezionate ad arte per dimostrare ciò che si vuole, tutte omologate al pensiero dominante dello “scientificamente provato”. Avete mai letto o sentito di una ricerca che ha dimostrato che un farmaco non funziona, che non cura ciò che si pretendeva di curare o che fa più male che bene? Se ne avete sentito accennare è stato solo per evidenze eclatanti di bambini che nascevano con le mani attaccate alle spalle, o qualche morto di troppo che ha fatto breccia in qualche medico, che non si è lasciato distrarre dalle sirene ponendosi in autonomia qualche domanda, qualche dubbio.
Si impara a pensare più dai libri non ortodossi che dai testi conformati. Le revisioni critiche servono per riflettere e approfondire, consentono autonomia di pensiero e di giudizio. I libri e gli articoli dell’ortodossia scientifica servono a confermare il pensiero dominante, non perché questo sia il più plausibile ma perché è il più gradito al potere. Confermando quanto gradito all’establishment si acquisiscono crediti utili a vincere concorsi che, notoriamente, non si superano con voci critiche o posizioni non convenzionali.
Purtroppo il medico, e lo scienziato in genere, tende a credere alle cose non tanto perché esistano prove che lo confermino ma piuttosto per un atteggiamento fideistico che mal si addice alla scienza e alle sue cose. Aver fede in qualcosa non è disdicevole in sé: non lo è ad esempio per un seguace di una religione. Lo scienziato non dovrebbe occuparsi di questioni teologiche ma di scienza, e dovrebbe pretendere prove certe, confrontabili e confutabili.
Oggi invece i nostri scienziati sembrano imbonitori, sacerdoti e predicatori dello scientismo, supporter e divulgatori della fideistica accettazione delle panzane.
È stato fondato il CICAP , un centro per contrastare le affermazioni sui fenomeni paranormali, e sia benvenuto! I ciarlatani vanno smascherati senza guardare in faccia a nessuno. Non so se al CICAP si siano mai resi conto che lo stesso atteggiamento cialtrone ha ormai inquinato le loro categorie.
Il metodo scientifico prevede che qualsiasi concetto venga supportato da dati sperimentali e che l’apparato con cui questi dati sono ottenuti sia pubblicato per essere conosciuto e per consentire ad altri una verifica: dell’esperimento quanto dei risultati.
Quando si parla di scienza non è accettabile alcuna affermazione che si basi su opinioni invece che su fatti. Le teorie scientifiche devono essere verificabili e falsificabili e devono convincere non sulla base del nome dello scienziato ma in forza della coerenza concettuale della ripetibilità dei risultati e della fedeltà con cui misurano ciò che si propongono di misurare.
Prevengo l’obiezione possibile: gli scorretti sono molti e non sono la totalità. Sono perfettamente d’accordo; la critica non è rivolta alla singola persona ma all’atteggiamento del sistema. Lo premetto per non doverlo ricordare costantemente (e anche per evitare noie legali).
In discussione non ci sono persone singole, medici, biologi, chimici, genetisti e psicologi: in questo libro intendo porre in discussione l’atteggiamento generale di questi cosiddetti uomini di scienza.
Pongo all’attenzione del lettore la mancanza di valutazione critica alla massa di dati e conclusioni spesso contraddittorie che dovrebbe allarmare chi ha una pur debole coscienza. Ciò che deve allarmare non è la scienza sperimentale, che anzi deve essere benvenuta e benvoluta: ciò che è da rifiutare come una intollerabile leggerezza è che essa esca dai laboratori e venga commercialmente sfruttata prima di averne ricavato vere conoscenze e conclusioni certe.
Il monopolio medico sulla vita e sulla morte è un chiaro esempio del cattivo uso politico delle conquiste scientifiche, sfornate a rafforzare la crescita industriale e i portafogli degli azionisti anziché delle persone comuni. È diventato lo strumento col quale i poteri forti controllano che coloro che soffrono, stanchi e disgustati di una società inquinata, insicura, invivibile e violenta non si spendano per cambiare la situazione e si convincano che la loro sofferenza è solamente determinata dai guasti del suo corpo bisognoso di cure e di riparazione tecnica.

Avvertenze e modalità d’uso

Al lettore chiedo di non passare a facili conclusioni e buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Non dobbiamo rinunciare a priori alla scelta di un medico eticamente e deontologicamente corretto e di una valida terapia. Dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra salute, non delegarla. Pensate solo se ha senso quello che state per fare, se è logico. Non prendete un farmaco per evitare un cambio di comportamento o non andate dal medico per risolvere qualcosa che non è di sua competenza. Non lo investite di onnipotenza per poi pretenderne l’infallibilità, esimendovi al tempo stesso dal riconoscere e assumervi le vostre responsabilità.
L’irresponsabilità del medico è la vostra stessa irresponsabilità. Lascereste in mano la vostra automobile ad una persona che nemmeno conoscete senza verificarne le capacità di guida? Dareste in consegna il vostro portafoglio a chiunque si dichiari buon custode?
Diffidate dei medici che sono infastiditi dalle obiezioni che vengono proposte con cortesia. Che cominciano a scrivere una ricetta prima ancora di aver incrociato il vostro sguardo o ascoltato i vostri disagi.

mercoledì 28 aprile 2010

Come confondere la causa con l’effetto

ARTICOLO comparso su La Repubblica.it Scienze, 19 marzo 2010
Autrice: Sara Ficocelli
Dopamina, molecola del potere
è lei che ci porta al successo
Alti livelli di recettori sono generalmente associati a una posizione sociale elevata. Secondo uno studio della Columbia University, è questo il segreto della motivazione personale.
Ambiziosi, arrivisti, scalatori, disposti a sacrifici fisici e morali pur di ottenere una posizione di potere. Persone così, non le ferma nessuno. Perché la loro forza è scritta nei geni, o meglio in un neurotrasmettitore: la dopamina. Una ricerca della Columbia University dimostra che le persone più motivate a ottenere potere in società sono anche quelle che possiedono una maggior quantità di recettori D2/D3 per la dopamina nel corpo striato, una regione del cervello coinvolta nella motivazione e nei comportamenti che puntano al conseguimento di una ricompensa.
Gli studiosi dei Dipartimenti di psichiatria e radiologia dell’università americana, coordinati dalla neurologa Diana Martinez, hanno analizzato un gruppo di volontari sani attraverso la PET (…)
(…) sono stati messi in relazione con lo status socioeconomico di ogni persona, portando a conclusioni interessanti. “Dal nostro studio - ha spiegato la Martinez - è emerso che bassi livelli di recettori per la dopamina sono generalmente associati a una posizione sociale non elevata. Viceversa, alti livelli si trovano in relazione con uno status più alto. Lo stesso tipo di rapporto è emerso rispetto al supporto sociale che i soggetti credono di ricevere da parenti e familiari”.
Secondo John Krystal, docente del Dipartimento di psichiatria della Yale University ed editor di Biological Psychiatry, “i dati gettano una luce interessante su ciò che muove il perseguimento di uno status elevato, che rappresenta un processo sociale basilare. Si può infatti ipotizzare che i soggetti con più alti livelli di recettori D2 siano anche più motivati e impegnati dalle situazioni sociali, e di conseguenza arrivino più facilmente al successo”.
La dopamina, che viene naturalmente sintetizzata dal corpo umano, sarebbe dunque la “molecola del potere”, il neurotrasmettitore responsabile dell’ascesa di certi soggetti rispetto ad altri, condizioni socio-ambientali permettendo. Che questa molecola giocasse un ruolo fondamentale nei processi decisionali non era un mistero. Basta pensare che la sua carenza è legata a doppio filo alla comparsa del morbo di Parkinson: nei malati, i neuroni che la producono muoiono, lasciando il cervello sprovvisto delle giuste quantità di neurotrasmissione. E queste persone soffrono, fra gli altri sintomi, anche di un rallentamento delle funzioni motorie e cognitive.
“Questa ricerca - spiega la neuroscienziata dell’Università di Bologna Francesca Frassinetti - ribadisce l’importanza delle strutture sottocorticali, come i gangli della base, di cui il corpo striato fa parte, nelle funzioni cognitive. Queste strutture cerebrali influenzano l’attività di aree corticali, in questo caso frontali, coinvolte nei processi decisionali, di adeguamento del comportamento al contesto e di ragionamento”.

L’articolo è un commento ai risultati di uno studio (Martinez et al., Biological Psychiatry, 2010) che si è proposto di verificare l’esistenza di una correlazione tra numero di recettori per la dopamina in una regione del cervello chiamata striato e il supporto e lo stato sociale dell’individuo.
Va notato che l’esistenza di una correlazione tra livelli di dopamina e stato sociale non implica necessariamente una relazione di causa/effetto, ma indica solo che le due variabili sono associate. I nostri comportamenti hanno una chiara base biologica ma questo non esclude in alcuna misura l’importanza di influenze ambientali sui comportamenti stessi. A questo proposito, i livelli di recettori dopaminergici sembrano correlare anche con il livello di scolarizzazione (Martinez et al., 2010). Un ruolo nella determinazione dello status sociale potrebbe essere esercitato anche dal livello di scolarizzazione dei genitori, facendo ipotizzare che lo stato sociale sia influenzato dalle opportunità offerte dal background. Quindi, lo status sociale sarebbe influenzato da fattori biologici ed ambientali, e lo scambio tra ambiente e cervello sarebbe bilaterale, arricchente e fondamentale per implementare in modo ottimale e adattivo i processi mentali e i comportamenti codificati nel patrimonio genetico che ciascuno di noi eredita.